L'IMPOSSIBILE A DIRSI
Volendo sondare un terreno della letteratura
profondo e affascinante quanto quello dell’epica non possiamo rinunciare a
prendere in considerazione il suo sostrato antropologico, analizzandolo
nell’espressione propria della sessuazione del linguaggio e dell’immaginario
proposto. Ci interessa muoverci, trasfigurarci, adottare ottiche diverse per
commisurarci con un inventario di eventi di vita e di pensiero collettivi che
non ci coinvolgono, benché ci sconvolgano.
Dove collocare lo spazio simbolico del femminile
per avverarne il luogo reale nella sua e altrui esperienza di vita? Domanda che
rivendica più di quanto legittimi in termini di “presenza”. Tentiamo allora di
scoprire su quale (s)fondo teoretico riposa l’epica dell’eroe classico e
moderno, alle prese con una sfera attanziale apparentemente modellata su scale
di valori condivisi e proiezioni di identità (maschili) modellate sul piano
della narrazione “originaria”.
“L’epica può raccontare ciò che la tragedia non
può rappresentare: l’impossibile”, Aristotele, Poetica, 24, 1460 a.
L’epica racconta l’impossibile, un impossibile
noto però, poiché la comunità vi si riconosce in valori, credenze e senso
dell’onore. L’impossibile raccontato dall’epica non può terminare nel
significato di “oltre il possibile”, così come saremmo portati ad intendere
considerando il suo valore d’uso nella lingua naturale.
L’impossibile deve essere più radicale di una
fantasmatica esperienza mitica. L’impossibile dell’epica è non-possibile,
negazione del possibile. Chiediamoci che cosa sia questo possibile negato nella
figura dell’eroe e dell’impresa epica, ma soprattutto chi sia e dove sia. La
tragedia lo rappresenta, lo parla e lo agisce: il dramma di un possibile che ha
perso la sua voce nell’i(n)spirazione di un canto. La tragedia rappresenta
Antigone, Medea, Agave e le Menadi, le figlie di Danao, le Troiane. Le
rappresenta, ri-ad-“presentandole” nella viva carnalità della donna che agisce
e patisce oltre un’ambientazione scenica e una stesura narrativa.
Nell’epica l’esclusione della possibilità
determina la magnificenza e la grandiosità dell’azione, in quanto l’eroe sfida
una sorta di necessità degli eventi che lo mette in relazione diretta con
l’ordine cosmico. L’eroe ha bisogno di relativizzare la necessità della natura,
contrapponendosi ad essa e negandola con la forza dell’identità del proprio
Idem. Un ordine razionale da fare invidia all’illustre dialettica hegeliana
sembrerebbe reggere i movimenti del soggetto se non fosse che egli stesso si
costituisce in questa antitesi, nella disgregazione di un Sé che si abbatte
sulla presunta necessità, combattendo il molteplice, il possibile.
L’eroe “fa getto di sé per ritrovarsi”[1],
estraniandosi dalla natura, negandola nella sfera delle possibilità del suo
farsi, attraverso la ragione, l’astuzia, l’espediente, lo scambio, il
sacrificio come compromesso con la necessità naturale che si vuole combattere e
sopra cui ci si vuole affermare.
Così il carattere sovrumano dell’impresa ci è familiare
nella raffigurazione dell’eroe errante, l’avversità, il sacrificio, la rinuncia
sembrerebbero essere le immagini ineluttabili di colui che decide di farsi
identità, affermazione, ego consapevole del fatto che “la dignità di eroe si
acquista solo con l’umiliazione dell’impulso alla felicità intera, universale,
indivisa”[2],
con la conquista dell’impossibile, nell’“unità di sesso e possesso”[3].
Eppure la plurale qualità “epica” pretende la rivalsa del suo molteplice, del suo
possibile, del suo genere. La dinamica di opposizione eroe-eroina non soddisfa
altro che il criterio di “medesimezza” nell’uguagliare lo standard della
prestazione maschile. E se eroina non è il femminile di eroe, l’epica non può
limitarsi a raccontare una negazione. Se fosse molto di più? Se l’impresa non
fosse tale oltre la quotidianità? Se il coraggio non si equiparasse alla forza?
Se il possibile fosse ancora vivo nella trama del racconto? E se fosse il mare
– realtà fluida per eccellenza, imprescindibile nel racconto epico - a parlare
per raccontare il viaggio dell’eroe?
A conclusione delle domande e in apertura del
dialogo sono proprio due spume del mare a raccontarsi, presenti sullo sfondo
come “schiuma d’onda”, epica eroica del femminile.
Britomarti “Non ho fuggito i desideri, Saffo.
Quel che desidero ce l’ho. Prima ero ninfa delle rupi, ora del mare. Siamo
fatte di questo. La nostra vita è foglia e tronco, polla d’acqua, schiuma
d’onda. Noi giochiamo a sfiorare le cose, non fuggiamo. Mutiamo. Questo è il
nostro desiderio e il destino. Nostro solo terrore è che un uomo ci possegga,
ci fermi. Allora sì che sarebbe la fine”[4].
Nicoletta Vitali
Nessun commento:
Posta un commento