PER UN’EPICA DELLE DONNE:
VIAGGI DI DONNE NEL MITO
CLASSICO
QUELLE CHE VIAGGIANO SPINTE DALL’AMORE:
ARIANNA
MEDEA
Arianna e Medea seguono un uomo che hanno aiutato a compiere
un’impresa: Arianna Teseo a sconfiggere il Minotauro, Medea Giasone a conquistare
il vello d’oro.Per seguire questo uomo sono andate contro la loro famiglia e
perciò hanno reciso ogni legame con ciò che hanno lasciato.
In questo senso si può parlare
per loro di un viaggio senza ritorno.
Le loro storie, però, hanno delle
analogie fino ad un certo punto:Arianna viene abbandonata da Teseo a Nasso e,
qui, di nuovo sedotta da un dio, Dioniso, il dio dell’ebbrezza e del vino.Una
compensazione sostitutiva: un dio anziché un uomo la rende a sua volta
immortale facendone una costellazione.
In Amante marina.Su Friedrich
Nietzsche di Luce Irigaray, Arianna è l’Altra obliata che avanza sulla
scena ed assume in prima persona il travaglio della parola, è un’Arianna-Luce
che si rivolge a Nietzsche - Zarathustra lamentando l’oblio in cui lui la fa cadere
Ero la vostra risonanza.
Timpano lo ero solo per il vostro orecchio.
Nietzsche - Zarathustra ha sepolto le acque immemorabili
della nascita, la teoria di madri, amanti, sorelle di dei che custodiscono i
bordi del corpo come soglie perennemente aperte a una nuova vita e ad un nuovo
linguaggio.Ad esse il superuomo attinge, senza coscienza di debito, l’energia
per i suoi voli oltreumani, appropriandosene infine nella stretta dell’anello
nuziale.
Più tragico il caso di Medea che,
arrivata fino a Iolco e poi a Corinto, è tradita dall’uomo che ama e che aveva
seguito e si vendica uccidendo i loro figli, cioè il legame più forte che aveva
con lui.
Ma Medea è anche una “barbara”,
una straniera, che non gode dello status di cittadinanza, rappresenta per la comunità
di Corinto un doppio pericolo perché due volte diversa: donna e straniera, un
doppio motivo per essere esclusa.
Il lamento che
Medea fa rivolta alle donne di Corinto, nella tragedia euripidea, è forse il
più grave atto d’accusa della condizione femminile nell’antichità:
di quanti esseri al mondo hanno anima e morte, noi donne
siamo le creature più infelici. Dobbiamo anzitutto, con dispendio di denaro,
comperarci il marito e dare un padrone alla nostra persona; e questo è dei due
mali il peggiore. E poi c’è il gravissimo rischio:sarà buono colui o non sarà?
Separarsi dal marito è scandalo per la donna, ripudiarlo non può. E ancora: una
donna che venga a ritrovarsi tra nuove leggi e usi e costumi, ha da essere
indovina se non riesce a capire da sé quale
sia il miglior modo di comportarsi col suo compagno.Se ci riesce e le cose
vanno bene e lo sposo di vivere insieme con la sua sposa è contento, allora è
una vita invidiabile; se no, è meglio morire. Quando poi l’uomo di stare coi
suoi di casa sente noia, allora va fuori e le noie se le fa passare; ma noi
donne a quella sola persona dobbiamo guardare. Dicono anche che noi donne
vivendo in casa viviamo senza pericoli e l’uomo ha i pericoli della
guerra.Ragionamento insensato.Vorrei tre volte trovarmi nella battaglia anziché
partorire una sola.
Ma in realtà non vale per me e per te lo stesso
discorso.Qui tu hai la tua patria e la casa paterna, hai comodità vita e
compagnia di amici; e qui io sono sola, senza patria, esposta agli oltraggi di
un uomo che mi ha rapita da una terra straniera come una preda, nono ho madre,
non ho fratello, non ho congiunti, a cui riparare da questa tempesta.
Dunque, se Arianna ha in comune
con Medea l’abbandono da parte dell’uomo che ama e che ha aiutato a diventare
quello che è, cioè un eroe epico,Medea deve vivere in più l’umiliazione di
essere tenuta ai margini in quanto non- greca e deve per di più accettare le
nuove nozze di Giasone.
Non le resta che la vendetta che
è anche un atto spaventoso contro se stessa, ma rispetto al quale non vede via
d’uscita:
Ebbene, da te,[Coro]
solamente questo vorrei ottenere: se io scopra una via, se trovi un mezzo per
far pagare a colui la giusta pena del male che mi ha fatto, ebbene, tu…non
parlare.La donna è di solito piena di paura,e inadatta alla lotta, e ripugna
alla vista di un’arma; ma se offesa nei suoi diritti di sposa, non c’è altro
cuore più del suo assetato di sangue.
(I,vv,259-266)
Da Euripide a Heiner Muller il mito di Medea rappresenta
l’esito di un tragico scontro tra il mondo arcaico e istintuale della
Colchide e quello civile e raziocinante dei Greci.
Malgrado le diverse impostazioni, la lettura del mito corre
fin qui nell’alveo prestabilito da Euripide che sfocia nell’infanticidio.
Indubbiamente, al di là del doppio tradimento- prima di Medea verso le sue
genti, poi di Giasone verso una moglie che gli intralcia la carriera- il dato
sconcertante resta quell’atroce violenza perpetrata dalla barbara della
Colchide sui propri figli.
Questo elemento viene messo in discussione nel romanzo Medea.Voci della scrittrice tedesca
Christa Wolf che attinge a fonti precedenti alla versione euripidea, attestate
soprattutto da Apollonio Rodio. Ne emerge una figura diversa di Medea:una donna
travagliata sì dall’amore, ma ancor più dall’incapacità degli abitanti di
Corinto di integrare una cultura come quella della Colchide, per sua natura non
incline alla violenza. Non un’infanticida, dunque, al contrario una donna forte
e generosa, depositaria di un remoto sapere del corpo e della terra, che una
società intollerante emargina e annienta negli affetti fino a lapidarle i
figli.
QUELLE CHE VIAGGIANO NEL REGNO DEI MORTI:
ISIDE
EURIDICE
Pur appartenenti a tradizioni e
culture molto diverse tra loro, anche se i riti orfici non poco hanno in comune
con i culti esoterici egizi, sia Euridice che Iside compiono degli strani
viaggi con un ruolo molto diverso, più attivo quello di Iside che viaggia per
cercare di mettere insieme i 14 pezzi del corpo del marito Osiride, ucciso e
fatto a pezzi dal fratello Seth, più passivo quello di Euridice che viene
richiamata dal regno dei morti(dove tra l’altro è finita cercando di sfuggire
le insidie sessuali di un pastore)dal suo amato Orfeo, il quale prima
mirabilmente con la sua arte di poeta e di musico persuade gli dei degli
Inferi, Ade e Proserpina (un’altra donna rapita a se stessa),ma poi non resiste
alla tentazione di voltarsi a guardarla(sarà vero amore o dominio del possesso
che passa attraverso lo sguardo? Incapacità di vivere l’attesa e il desiderio sottile che nasce da questa?)
E’ così che Orfeo è passato alla
leggenda come il cantore di eccezionale valore quello che ammansisce le fiere e
sposta i massi rocciosi con la forza e la magia del suo canto,come l’uomo che
molto ama così da sconfiggere la morte e gli dei che la presiedono.
Ma sarà davvero così?
La filosofa Adriana Cavarero nel
suo libro Tu che mi guardi, tu che mi racconti.Filosofia della narrazione, dedica
un capitolo proprio alla voce di Euridice,in particolare attraverso la poesia Eurydice
della poetessa americana Hilda
Doolittle, conosciuta con il nome siglato di H.D.
Qui viene assunto il punto di
vista della donna amata da Orfeo e il
mito viene rivisitato proprio a partire dall’arroganza dello sguardo di lui.
Egli è arrogante e crudele. E’
in altri termini colui che intesse sul suo desiderio e sul suo errore tutta la
vicenda del mito, tutta la trama della storia[..] Nei versi di H.D. l’Euridice che lui trascina avanti e indietro inutilmente, senza che lei
possa intervenire, trova dunque la straordinaria possibilità di commentare
questa storia dal suo punto di vista
Così, mentre Iside fa un viaggio
di riappropiazione del corpo dello sposo-fratello e, così facendo, sembra
vincere la morte e renderlo immortale tanto
da generare dal suo corpo un figlio, Horus, Euridice viene prima evocata
dal mondo dei morti e poi vi viene risospinta proprio dal desiderio oscillante
di Orfeo che la vuole di nuovo viva, ma non sa trattenersi dal non volerla
subito.
Euridice, ormai nel regno dei
morti, nella poesia di H.D, vuole rimanere lì, non vuole che sia un altro a
decidere se deve essere viva o morta, soprattutto quando questo altro non può,
non sa mettere da parte se stesso per il bene di lei.
Perché ti sei voltato,
così da ripopolare gl’Inferi
di me
respinta nel nulla?
E ancora:
Se mi avessi lasciato aspettare
Dall’indolenza sarei maturata
alla pace,
se mi avessi lasciata riposare
con i morti
avrei dimenticato te e il
passato
IL VIAGGIO DI UNA MADRE CHE
RIVUOLE SUA FIGLIA
DEMETRA
Nell’interessantissimo e
antichissimo mito di Demetra,la dea madre per antonomasia, dea delle messi e
del grano che molti identificano con Cerere, è da vedere la cancellazione della
relazione madre-figlia(così nella lettura di Irigaray) che viene posta in
secondo piano rispetto al rapporto uomo-donna. Il viaggio di Demetra è un
viaggio attivo, di ricerca, e la dea non si dà per vinta perché sa di avere
dalla sua il potere di distruggere la vita sulla terra.
Grande divinità preolimpica, Demetra presiede alla natura con la quale
coincide e, così come è datrice di vita, basta che smetta di volerlo, diviene
datrice di morte e niente cresce più e si produce senza di lei.
Ma dov’è finita sua figlia Core?
(nome tra l’altro che per eccellenza richiama la figlia, la giovane).In
seguito, si scopre che il re degli Inferi, il cui nome coincide evocativamente
con la radice Id del verbo greco orao, vedo, Il-senza-luce, l’ha
rapita nell’atto di cogliere fiori,probabilmente tulipani e papaveri,l’ha
inghiottita e portata nel regno ctonio per farne la sua sposa. Demetra non può sopportare questa assenza e chiede a Zeus
di intervenire. E Zeus, che di ratti ne sa qualcosa, ma non può dire di no a
Demetra, pena la fine della vita sulla terra, chiede ad Ade di restituire la
fanciulla. Allora il re dei morti fa mangiare a Proserpina un chicco di
melograno perché, chi mangia qualcosa nel regno dei morti, è destinato a
tornarvi. Così Zeus trova un compromesso: Core - Proserpina(questo il nuovo
nome che la fanciulla assume)starà per i mesi invernali con il marito Ade e
negli altri mesi, estate e primavera, con sua madre Demetra.
IL VIAGGIO DI RISCATTO E DI
INIZIAZIONE
PSICHE
Nella bella storia di Amore e
Psiche, contenuta ne Le metamorfosi di Apuleio, troviamo per così dire
raddoppiato, storia nella storia, il senso del viaggio del protagonista del
romanzo, cioè di Lucio che, trasformato in asino per eccesso di curiosità, si
trova a vivere una sorta di viaggio iniziatico (probabilmente il culto a cui fa
riferimento Apuleio è quello di Iside) che lo formerà e lo riporterà, cambiato,
alla sua condizione di uomo.
A Psiche succede un po’ la stessa
cosa. Troppo bella per essere vera, è subito invidiata da Venere che, vedendo
in lei una rivale, invia il figlio Eros
dalla giovane perché con le sue frecce la spinga ad innamorarsi di un
mostro. Invece tutto si capovolge ed è Eros a innamorarsi della bella Psiche, ma
senza rivelarle la sua identità.
Psiche accetta questo strano
matrimonio con un uomo che non conosce, ma che comincia a conoscere e ad amare,
però vive isolata da tutti, non vede mai nessuno, solo lo sposo, che, la notte,
le fa visita e le sorelle. Saranno
proprio le sorelle a metterle la pulce nell’orecchio insinuando che il suo
sposo non si palesa perché è un mostro orribile. Psiche all’inizio non bada alle
chiacchiere, ma, si sa, quando il sasso è gettato, i cerchi cominciano a
prodursi. Così una notte si avvicina al suo sposo che dorme con la lampada per
vederne il volto: scopre un essere bellissimo di cui si innamora ancora di più.
C’è solo un piccolo particolare: questo essere è dotato di un paio di ali, ma
Psiche sembra non farci caso. Sul più bello, però, mentre lei lo contempla
estatica, una goccia di olio della lampada cade sulla bella pelle di lui che si
brucia. Allora Amore scompare e ritorna da sua madre, mentre per Psiche inizia
una serie di avventure e disavventure, umiliazioni, battiture, tutte volute
dalla suocera Venere che, neanche a dirlo, rappresenta la peggiore relazione
tra donne, quella dettata dall’invidia e giocata tutta sul primato della
bellezza secondo i desiderata maschili.
Il viaggio di Psiche la porta
anche a scendere nel regno dei morti, dove, ancora una volta, la curiositas
starebbe per perderla, se non fosse per l’intervento dello sposo Amore.
Tutto in questa storia sembra
risolversi nel migliore dei modi:da questa unione nasce anche una bambina a cui
viene dato il nome di VOLUPTAS ,il piacere per l’appunto.
Questo racconto fa emergere i
modelli relazionali che contraddistinguono l’ordinamento sociale patriarcale: la
madre silenziosa, l’invidia tra donne, il dilemma del figlio, la legge del
padre.Indica inoltre la radicalità dell’amore tra uomo e donna.
Del resto questo mito viene messo
per iscritto in un’epoca in cui l’egemonia delle divinità maschili iniziava a
essere messa in forse. Il luogo, l’Africa del Nord nel II secolo, era un luogo
d’incontro e di mescolanza delle culture africana , greca e romana; un luogo in
cui risuonavano le voci delle donne, data la crescente popolarità della
religione di Iside.
Nell’analisi del mito di Amore e Psiche fatta dalla
psicanalista Carol Gilligan, Psiche, che sceglie l’amore comunque, sa che la
sua strada è in salita,
deve attraversare la terra
devastata delle relazioni tra donne, un paesaggio deturpato dall’invidia e
dalla paura.Ma la strada imboccata è sconosciuta anche perché. Rivelandole il
prezzo che le donne devono pagare per il fatto di vivere nel patriarcato, la
condurrà al di fuori di questo territorio.Per uscire dal patriarcato deve
attraversare il suo territorio psichico e […] il travaglio dell’amore che porta
alla nascita del piacere è un travaglio psicologico difficile.
(C.Gilligan, La nascita del
piacere,p.40)
Tutti questi viaggi, a differenza
dei principali viaggi epici maschili –basta citarne due per intenderci,quello
di Odisseo e quello di Enea- sono viaggi con una forte motivazione affettiva e
relazionale.Le figure del mito in
questione non si mettono in viaggio per conoscere nuovi mondi o per portare a
termine missioni che gli dei hanno affidato loro, non sono preda insomma di un logos
o una ragione superiore.Sono spinte a viaggiare dai loro sentimenti.
Viaggiano per amore Arianna e
Medea per seguire l’uomo che amano e che poi le tradisce.
Viaggia, per ricongiungersi a sua
figlia, Demetra che fa di tutto per poterla riavere con sé.
Viaggia e affronta durissime
prove Psiche per riottenere l’amore e la
fiducia dello sposo.
Viaggia inseguendo un uomo bello
che poi non stimerà più la bella Elena, la donna fatale, per cui Achei e
Dardanidi combattono per dieci lunghi anni.
Viaggia per partorire i suoi
figli e proteggerli dal padre Zeus che li vuole inghiottire Latona, madre di
Apollo e Artemide.
Viaggia per ritrovare il cadavere
dello sposo e poi le parti del suo corpo e per riportarlo alla vita la dea
Iside.
Viaggia verso il regno dei vivi
Euridice richiamata da uno sposo che non sa resistere alla tentazione di
prenderla con lo sguardo.
Anche la bella Elena viaggia per
seguire un amore, anche se lei ci appare più un capro espiatorio, tanto che una
tradizione mitica secondaria ritiene che Elena non sia mai andata a Troia, ma
si sia fermata in Egitto, (l’Elena Egizia appunto) e che al posto suo
sia andato a Troia un simulacro.Comunque Achei e Dardanidi avevano diversi motivi
(gli uomini ne hanno sempre!) per fare una guerra ed Elena non sembra che un
pretesto.Del resto Elena –come Psiche- è vittima della sua bellezza e diviene
l’oggetto del contendere solo per riparare l’onore di un re ferito.Onore è una
parola chiave dell’epica omerica ancora più della forza.
Le figure del mito di cui si è
parlato fin qui sono dunque figure di donne che hanno compiuto dei viaggi non
per sete di conquista e neanche per realizzare un disegno più alto, per
compiere una missione che altri(dei o rappresentanti di un potere
costituito)hanno imposto loro.Neanche hanno viaggiato per curiosità, per
conoscere altre terre, ma hanno compiuto degli spostamenti mosse dal desiderio
di essere due: due con l’amato, due con la figlia o per riconquistare un amore
perduto.
Ne possiamo comunque dedurre che
i viaggi di queste donne, in particolare quello di Medea e di Arianna, sono
viaggi senza ritorno e, una volta scelto di lasciare la patria, non ci sarà più
nessuno a riaccoglierle.Sono loro le traditrici.
UN’ALTRA EPICA
VIAGGIARE ALTRIMENTI: PENELOPE
Ben diverso è il viaggio dell’eroe del ritorno
per eccellenza, Odisseo.
Odisseo sfida la morte, sfida il
senso del limite, si direbbe anzi che fino alla fine cerchi la morte per
divenire immortale.E’ quello che deve fare ogni
eroe epico che si rispetti:Achille rinuncia ad invecchiare con una sposa
e dei figli nella sua Ftia e preferisce morire giovane, ma avere fama
immortale.E’ il destino degli eroi.
È un essere per la morte il loro,
ciò che da’ senso al loro esistere è la morte, il limite estremo da superare,
l’ultimo mare, quello che come nell’Ulisse dantesco si richiude come epigrafe
tombale (ma immortale!) sopra l’eroe.
Allora credo che per operare un
ribaltamento dell’epica sia invece necessario ripartire da un fondamento
filosofico diverso, cioè da un essere-per-la-vita direbbe Hannah Arendt
.Pertanto la figura femminile dell’epica da cui ripartire mi sembra essere
proprio quella di Penelope,la donna che una tradizione consolidata ci ha
tramandato come modello di moglie e madre fedele, la donna dell’attesa. Eppure,
come ben evidenzia Eva Cantarella, sono molte le ambiguità di Penelope, molti
gli indizi che di lei ci dicono altro. Ma, soprattutto, vorrei partire
dall’analisi della figura di Penelope che compie la filosofa Adriana Cavarero
nel suo libro Nonostante Platone nel primo capitolo a lei dedicato.Se
l’azione di Odisseo appartiene alla storia dei grandi Eventi, all’epica
tradizionale appunto, alla fama immortale che esige il rischio e il superamento
del limite,la storia di Penelope è tutta in quella stanza del telaio e consiste
nel suo fare e disfare la tela in un tempo infinito, ripetibile, sempre uguale
a se stesso, ma che è il suo
tempo. Facendo e disfacendo la tela Penelope si sottrae ai grandi Eventi e si
ritaglia uno spazio e un tempo anomalo rispetto all’ordine patriarcale:in
quella sua stanza-che incredibilmente assomiglia alla stanza tutta per sé
di Virgina Woolf- si ritaglia uno spazio dove non è moglie di nessuno:non di
uno dei Proci ma neanche di Ulisse, il quale da vent’anni è altrove.
In Penelope l’attesa si affievolisce, si stanca, la memoria si spegne[…]
L’attesa appartiene ad un
futuro che Penelope non conosce, perché Penelope nulla sa della grande storia
nella quale Omero narra le narrazioni di Ulisse.Penelope si tiene al presente e
confina col suo lavoro un luogo separato dove ella si appartiene.Penelope sta
nella sua piccola storia:un tessere e un disfare senza fine, che è un
prolungare il tempo dell’identica ripetizione che conserva la sua solitudine
intatta e la salva dall’evento.
Il lavoro di Penelope e il suo
tempo sembrano vuoti ed inutili: fare e disfare una tela un gesto ripetitivo
compiuto per venti lunghi anni tanto da essere lei stessa quel gesto e da
ritagliarsi in quel gesto il suo spazio di autonomia. E’ così che quella sua stanza
diventa la sua leggenda consegnataci dalla tradizione epica. C’è un’Itaca di
Ulisse ma c’è pure un’Itaca di Penelope e occorrerà ripartire da lì perché
Penelope lì ha saputo fermarsi
Penelope sa che il mare è di
Odisseo e lascia che egli misuri sulla morte le sue gesta e la sua storia. Lascia che la leggenda narri
di guerre, dolori e furori, lascia che il suo sposo vada a
giocare il senso del suo essere nella potenza della morte e scrive la sua
storia personale a partire dalla sua stanza, dalla sua casa, dalla sua Itaca.
Odisseo parte in fondo per
ritrovare Itaca. Per capire il senso del suo radicamento, del suo nascere deve
perdersi e confondersi. Itaca è là, sempre presente nella sua memoria e tutto
quello che compie lo compie avendo in mente questo luogo di nascita al quale
tornare.Deve uscire da sé, essere nelle cose, nelle imprese, misurarsi con i
limiti, attraversare le sponde del mare, ma sempre con la sicurezza di un
approdo finale.Il suo, a differenza del viaggio delle molte figure femminili
che abbiamo trattato in precedenza, è un viaggio con biglietto di ritorno.
Penelope non ha bisogno di andare
fuori da se stessa per ritrovarsi, di
affrontare mirabili prove con mostri e dei, di mettere alla prova se stessa.Non
deve neanche perdersi nel corpo di altri uomini, siano essi anche delle
divinità, per capire il senso di quello che è, per acquisire consapevolezza
della sua esistenza.Non deve mettere alla prova la sua forza, il suo coraggio,
la sua metis alla maniera degli uomini.La sua forza è essere se stessa e
paradossalmente(lei celebrata come la figura dell’attesa)non attendersi niente
(che poi è la vera sostanza dell’attesa!), il suo coraggio è vivere la sua vita
in uno spazio che lei si ritaglia, la sua metis è sottrarsi non solo ai
Proci, ma anche ad Ulisse, tanto che alla fine, stranamente, quando il
mendicante –Ulisse (che lei non ha ancora riconosciuto) le rivela che suo
marito sta per tornare, proprio allora, anziché prendere ulteriore tempo
rispetto ai suoi pretendenti, indìce la gara dell’arco per scegliere tra loro
il suo futuro sposo.Uno strano atteggiamento, no, per una sposa che vive in
funzione di Ulisse.
E che dire poi del mancato
riconoscimento?
Forse Penelope è gia fuori,
estranea:Odisseo è partito ed è ritornato perché in fondo questo era il fine
del suo viaggio, il ritorno. Penelope, che non si è mai mossa ,che non ha avuto
bisogno di andare fuori per sapere chi era, in quel suo ritmico fare e disfare
ha tessuto un altro racconto di sé.
Anche alcune scrittrici
latino-americane hanno dedicato grande attenzione alla figura di Penelope
ribaltandone l’immagine stereotipata di donna e moglie fedele e citando a tal
proposito proprio la
Cavarero.
Il XX Congresso dell’Associazione
degli Ispanisti dell’Università di Roma Tor Vergata, coordinato da Brigidina
Gentile, ha avuto come tema proprio: “I Viaggi di Penelope.L’Odissea delle
Donne, immaginata, vissuta e interpretata dalle scrittrici latino-americane
contemporanee”.
Tra queste la Penelope della
poetessa cubana Juana Rosa Pita che
“preservando uno spazio fisico e rivendicando una relazione del tutto personale
con la terra e con il tempo” riesce a delineare per i lettori la trama dei suoi
viaggi, della sua odissea. Un elemento importante di questa riscrittura
poetica della figura di Penelope è la
scrittura appunto il volar la pluma perché prendere la penna per
esprimersi è un atto che significa il rifiuto della propria immobilità, il
rifiuto a rappresentare un luogo nell’itinerario di viaggio degli uomini e a
personificarne simbolicamente la casa.
Così la stanza di Penelope è
pienamente la stanza della Woolf e la sua tela la scrittura.
No basta con tejer para la espera
Es preciso viajar: volar la pluma
Por la ternura encuadernada en suenos:
Chalupa mas sutil
Concava y agil
Que las viriles naves de Ulises..
(J.R.Pita, Viajes de Penelope, Miami, soalr, 1980,p.62)
e’ necessario viaggiare: far
volare la penna
per incorniciare la tenerezza
racchiusa nei sogni
scialuppa più sottile
concava e agile
delle virili navi di Ulisse)
(la traduzione ,molto libera, è
mia..me ne scuso..)
Maria Grazia Baiocco
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M.Nucci, Le Lacrime degli
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Maria Grazia Baiocco, Divenire
divine, Cittadella editrice, Assisi 1998
Juana Rosa Pita, I Viaggi di
Penelope, a cura di B.Gentile
Introduzione al X Seminario
Estivo Residenziale organizzato dalla Società Italiana delle Letterate
(SIL), Frascati 12-14 Giugno 2009
“Epiche.Perché eroina non è il
femminile di eroe”
Brigidina Gentile, I Viaggi di
Penelope.L’Odissea delle donne, immaginata, vissuta e interpretata dalle
scrittrici latino-americane contemporanee, in Letteratura della memoria,
Atti del XXI Convegno A.ISP.I. Salamanca 12-14 Settembre 2002
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